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90 - Il Pauperismo a Cavour

90 - Il Pauperismo a Cavour

“…Già nel 1700 il pauperismo in Piemonte, come in tutti i paesi rurali – scrive Gabriella Martina nella sua tesi di laurea in STORIA DEL RISORGIMENTO riguardante l’Ospedale di Carità di Cavour (AA 1989/90) – costituisce una piaga endemica; sono sufficienti un pessimo raccolto, una malattia del bestiame o una epidemia per esporre la parte più povera della società alla miseria. Dopo il 1750 la situazione delle campagne peggiora ulteriormente e i contadini, non più in grado di mantenere la famiglia, diventano mendicanti e vagabondi in cerca di carità pubblica nelle città…”

La mendicità, unita al vagabondaggio, era vietata in Piemonte sin dall’epoca di Amedeo VIII. In seguito, il duca Carlo Emanuele I (sec. XVI / XVII) la proibì in modo assoluto e istituì asili di ricovero per i mendicanti.

Ma “questa vivace gramigna si riprodusse” fece osservare Luigi Cibrario nella sua “STORIA di TORINO” e sarà solamente al tempo di Vittorio Amedeo II (sec XVIII) che si avranno i primi importanti provvedimenti sulla pubblica beneficenza.

Il sovrano proibì la mendicità, ma studiò i dati sulle opere pie ed estese a tutto lo Stato il sistema degli ospizi già sperimentato a Torino e Chambery. Nascono così nei centri di grande importanza, ospizi di carità o congregazioni che hanno lo scopo di gestire i fondi destinati alle elemosine (raccolta e distribuzione).

Nella prima metà dell’800 è il nascente sistema industriale che viene accusato di essere la fonte del pauperismo che continua a imperversare in tutto il Regno sardo: i contadini allettati dal miraggio del guadagno facile rispetto al faticoso e a volte ingrato lavoro nei campi, abbandonano ancora le campagne ma si trovano ad affrontare problemi a cui non sono preparati, soprattutto dal punto di vista economico, sociale e umano. (Gli indigenti censiti nello stato, nel 1845, saranno ancora circa 450.000).

A Cavour a quel tempo si occupa dei poveri la Compagnia di carità (poi Congregazione di Carità) nell’Ospizio di Carità già documentato da mons. Angelo Peruzzi nella sua visita pastorale dal 1584. Però già nel 1351, presso la antica chiesa dei SS. Nomi di Gesù e Maria, esisteva un “luogo di ospitalità” per i viaggiatori, trasformato poi in “luogo di soccorso” ai poveri, facili prede di epidemie causa la malnutrizione e le paurose condizioni igieniche: un prototipo di futuri ospedali curativi.

Anche l’Ospizio di Carità, nel 1769, era divenuto “ospedale” in quanto ammetteva infermi locali affetti da malattie acute. Ai poveri venne riservata anche una piccola struttura nel cortile dell’ospedale stesso:”’l cambron” (il camerone), ancora utilizzato nei primi decenni del ‘900.

Fra coloro che ricevono un sussidio o assistenza domiciliare (fornitura di medicinali) dall’ente cavourese, la maggior parte risulta essere ancora connessa con le attività agricole, ma non mancano i piccoli artigiani, falegnami, muratori, calzolai, zoccolai, servi, carrettieri, ciabattini, facchini, arrotini, mugnai, spaccalegna, “scarpinelli”, “tira manici”, pizzicagnoli, mesciai e perfino un “tenutario di cantina”, tessitori, filatori e questuanti (mendicanti, questi, veri e propri). In tutto nel 1839, risultavano essere 339 maschi, mentre fra le femmine (377) troviamo citate serve, modiste, fruttarole, lavandaie, “giornaliere”, bovare, sarte e vere e proprie mendicanti.

Trattandosi di molti nuclei familiari, è relativamente alto anche il numero dei bambini.

Negli elenchi degli assistiti numerose le informazioni riguardanti la condizione sociale di ognuno con terminologia ricca di sfumature come “indigente” “questuante” “mendicante” “miserabile” “bisognoso” “semplice meschino” “indisposto” “malaticcio” “decrepito” “indesiderabile” ecc…

Alla fine dell’Ottocento, i poveri censiti a Cavour risulteranno ancora oltre duemila, e certamente non risolvono i problemi le rare distribuzioni supplementari di pane istituite in occasioni speciali, come quella per onorare il venticinquesimo anniversario di matrimonio tra Umberto I° e Margherita: “…la povertà, la sofferenza e la malattia di una popolazione – dice Gabriella Martina – non si eliminano così facilmente con un pane in più”.

Oltre all’ospedale-ospizio, si occuparono della povertà a Cavour due strutture cottolenghine:

- l’Istituto femminile S. Giuseppe (1854 e 1935) chiuso negli anni ’80,

- l’Istituto Cottolengo maschile  (inizio 900) chiuso negli anni ’90,

 e, nella prima metà dell’800

- l’Istituto Pollano “per le povere figlie”.

 

Preziosa fu l’opera delle suore cottolenghine della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, a Cavour dal 1838 per ordine di Carlo Alberto, mentre si riscontra interesse verso il pauperismo anche da parte dei Benso: è del 1817 la lettera con cui il Marchese Michele comunica al sindaco di Cavour di voler concorrere al mantenimento dei poveri locali con dei sacchi di meliga da ritirarsi presso la sua cascina di Santena. Grande è poi l’impegno del Marchese Gustavo che, al riguardo, riesce a coinvolgere anche il fratello Camillo: quest’ultimo, nel 1859, invierà un incaricato a Milano con il compito di studiare le disposizioni di legge sulla beneficienza in Lombardia, al fine di creare, nel futuro, una sola legislazione valida per tutto lo Stato.

Curiosità: in un verbale del 1859, il presidente della Congregazione di Carità di Cavour fa dar lettura della circolare con la quale il sig. Intendente invita a concorrere con offerte a sollievo delle famiglie povere dei contingenti richiamati allora sotto le armi.E’ la prova – continua Gabriella Martina nella sua Tesi già citata – che anche la popolazione cavourese fornisce il suo contributo umano alle guerre per l’Indipendenza”.


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